sabato 1 novembre 2014

Sull'orlo dell'abisso

Racconto pubblicato su ScubaZone n. 16

Penultimo giorno di vacanza, ultima immersione. Provo a non cedere alla tristezza, mi dico: abiti in Liguria, l’estate è ancora lunga, magari l’autunno quest’anno fa il bravo e ti lascia andare in acqua fino a dicembre, non c’è bisogno di fare quella faccia, e comunque hai ancora un tuffo, goditelo, tieni le lacrime per quando l’aereo starà per atterrare a Genova e dall’alto vedrai il bianco dell’autostrada e il blu del capannone IKEA.
Mi faccio coraggio e sorrido all'Omonero, un sorriso fintarello e tristanzuolo, ma comunque meglio del moccio al naso.



Preparo l’attrezzatura con lentezza fastidiosa: prendo tempo, ritardo il momento in cui tutto sarà finito, almeno per quest’anno, almeno per qui, per la mia bella isola marziana.


Carichiamo tutto sul furgone che ci porta al molo, mi siedo in fondo e guardo i cactus correre nel deserto. Sospiro.
Il furgone frena brusco, il portellone si apre, scendo e mi incammino dietro agli altri. Ben, la nostra guida, mi fa segno di no, “Voi due venite con me,” dice, e si incammina in direzione opposta a quella presa dal resto del gruppo. 
Mi asciugo il sudore con la manica della muta, scambio un’occhiata perplessa con l’Omonero e seguo Ben. Scarpiniamo, bombola in spalla e pinne sotto l’ascella, fino a una spiaggia di zucchero e carbone.

“Volevo che l’ultima fosse un’immersione speciale, per questo siamo solo noi tre. Vi raccomando solo una cosa: state attenti alla quota, sorvoleremo una zona che scende oltre i sessanta metri. Non state mai più in basso di me e tenete d’occhio il computer.”

Entriamo in acqua e pinneggiamo seguendo il declivio di sabbia tra sogliole, seppie, saraghi e cernie. Raggiunta la scogliera, una leggera corrente mi trascina: lascio che sia, mi lascio andare, mi lascio trasportare, e così Ben e l’Omonero. Voliamo, noi tre, tra i coralli e le ricciole, sopra un relitto ritornato mare, e il tempo non esiste più.


Ben si raccomanda ancora di fare attenzione alla quota e riparte verso il blu. Siamo a trenta metri, e la trasparenza dell’acqua e la temperatura mite sono ingannevoli: dovessi dire così, solo guardando, a che quota siamo, direi non più di dieci metri.
L’unico suono è quello del nostro respiro. Mentre avanziamo, il fondale scende e il bianco della sabbia sotto di noi diventa ciano, cobalto, ametista, notte, bianco. 
Bianco?
Stringo la mano dell’Omonero (neanche mi ero accorta di avergliela presa), Ben si volta verso di noi e capisco, dagli occhi, che sta sorridendo: indica sotto di sé (sotto di noi) una foresta bianca e sorride. Corallo nero. Ovunque guardiamo, una distesa di candido corallo nero. Trattengo il respiro cercando il silenzio assoluto. 

Sembra un bosco. 

Sembra inverno.

Da un abete innevato una razza si alza in volo; i suoi movimenti sono ampi, lenti, e mi sembra di sentire il suono delle ali nel vento. Solo che non c’è vento quaggiù, e la razza non sta davvero volando. Nuota. Anch’io nuoto. Le vado dietro, muovendo le pinne al ritmo delle sue ali, respirando al ritmo delle sue ali. Le vado dietro, che altro dovrei fare? Che altro potrei fare?


Un fischio, un canto. Qualcosa mi blocca le gambe, cerco di liberare le pinne, mi sento tirare: l’Omonero mi tiene per un piede, Ben indica il computer e dagli occhi capisco che non sorride più; un canto, un fischio: è il computer che suona! L’incantesimo si rompe, sono scivolata giù a quaranta metri e non so come sia successo.
Risaliamo finché il computer e Ben smettono di gridare.


La razza sarà lontana, ormai. Volava al ritmo del mio respiro, e non l’ho neanche vista andare via. Volava al ritmo del mio respiro, e l’avrei seguita per sempre, fino in fondo agli abissi.


Mentre faccio penitenza in sosta a cinque metri sotto una giostra di barracuda, penso che forse non mi dispiacerà rivedere il blu del capannone IKEA.