domenica 4 maggio 2014

Le parole non si mangiano. Ma ti alleviano la sete.

Ci piacciono cose diverse, a me e a te. Musica libri film. Ma anche sapori odori colori.
Odio il marrone, per esempio. Magari per te è il colore della terra e degli alberi ed è bello.
Per me, è il colore del fango e della merda, e mi fa schifo.
Anche a me e a me piacciono cose diverse. Va a seconda dei giorni, dell’umore, del periodo della vita. Da ragazzina adoravo D’Annunzio, pensa. Mi ero innamorata di Andrea Sperelli, che stronzi così stronzi non so nemmeno se esistano. 
A quindici anni forse è normale che ti piacciano gli stronzi.
Poi non lo è più.
A quindici anni forse è normale, anche, non spazientirsi per la descrizione di un vaso lunga cinque pagine: di tempo, ne hai da vendere.
Poi non lo è più: il tuo tempo è contato.
E infatti oggi mi piacciono gli uomini buoni e le scritture secche.

Una volta il mio amico Attilio mi ha chiesto secondo me perché qualcosa che per uno è straordinario, per un altro è invece una schifezza.
“Ti sarà successo, no? Di far sentire un pezzo a un amico e di rimanerci come un pirla quando ti dice che è una cagata!”
“Sì, mi è successo.”
“E com’è possibile? Un pezzo è buono o non lo è. No?”
“Non so. Ci piacciono le cose che in qualche modo parlano di noi. Parlano a noi. O così credo.”

Così ora sto per scrivere di un libro che ho appena letto. Acchiappato e divorato in due giorni. Adorato per empatia.
Sto parlando del libro di un gigante, quindi è chiaro che c’è tutto quello che deve esserci, e a un livello altissimo, ma non è il suo lavoro migliore, o almeno così dicono i critici, quelli che la sanno lunga. Eppure sono sicura che, almeno in questo momento, nient'altro saprebbe mandarmi così fuori di cocomero. 
Sto parlando de “Gli Inquilini” di Bernard Malamud, edito da minimum fax.




La trama in due parole.
Brooklyn. Henry Lesser è l’ultimo abitante di una palazzina che dev’essere demolita per fare posto a un condominio fico. Lesser è uno scrittore, da nove anni lavora al suo terzo romanzo, e non ha nessuna intenzione di lasciare l’appartamento finché non avrà terminato il suo lavoro. Lì l’ha cominciato, lì lo finirà.

Da quando lecco la farina sottolineo passaggi, descrizioni, suggerimenti in tutto ciò che leggo; cerco di capire, carpire, rubare, imparare più che posso.
Qui ho sottolineato tutto, cazzo. Tutto.
Perché nella storia di Lesser, nelle sue vicende col padrone di casa che cerca in ogni modo di convincerlo ad andarsene, con lo scrittore nero che si piazza nell’appartamento di fianco invadendogli lo spazio e negandogli la quiete, con Irene, che finirà con l’essere donna di entrambi gli scrittori e di nessuno dei due, c’è tutto il dramma dello scrivere. Non si parla d’altro, in ogni pagina.

La maledizione.
Lesser si sveglia per finire il suo libro. Sente l’odore della terra viva nella morte invernale. In lontananza, il lamento di una nave che lascia il porto. Ah, se potessi andare anch’io dove va quella nave. Cerca di riaddormentarsi, ma non ci riesce, è come se un cavallo lo trascinasse fuori dal letto per le gambe legate. Devo alzarmi e scrivere, altrimenti non avrò pace. In questo senso non ho scelta.

La fatica di costruire di una storia.
È una lunga storia, ma ora come ora significa che non sa in che modo finire il suo libro. Né perché la fine, questa volta, sia così difficile quando invece ha costruito ogni gradino per arrivarci.

L’importanza del luogo e delle abitudini.
Gli altri avevano accettato la liquidazione del padrone di casa ma Lesser era rimasto e sarebbe rimasto ancora un po’ per poter finire il libro dove l’aveva partorito. Non era sentimentalismo, lui viveva di abitudini; fa risparmiare tempo. La casa è dov’è il mio libro.

Riscrivere.
Lui era pur sempre uno scrittore che scriveva. Riscriveva. Quello era il suo forte, faceva un sacco di cambiamenti.

Perché scrivere.
“Quando lo leggerà, Levenspiel, mi amerà perfino lei. L’aiuterà a capire e a sopportare la sua vita, così come scriverlo ha aiutato me a sopportare la mia.”

Le parole non si mangiano, ma ti alleviano la sete.

La solitudine. Maledetta. Benedetta.
Certo, magari mi fa un po’ paura salire sei rampe di scale al buio chiedendomi chi sto per incontrare, se un uomo o una bestia, ma per il resto me lo sono goduto questo grande condominio vuoto. Un sacco di spazio in cui far correre l’immaginazione.

La rinuncia alla vita, e il riscatto.
Harry provò una momentanea sensazione di perdita, di rimpianto per aver consacrato la sua vita alla scrittura, seguita da un’ondata di affetto per il suo io creativo mentre rileggeva la pagina e mezzo del giorno prima e la trovava valida, solida, a posto. Il libro lo riscattava.

Il potere distruttivo delle interruzioni.
Lesser sapeva che il campanello stava suonando e continuò a scrivere.
(…)
Non ha idea di come cambi quando si perde il contatto. Ho paura di cosa può succedere se mi allontano concettualmente anche solo di un millimetro.

I momenti di esaltazione, il (bi)sogno dell’incoronazione.
E per di più sto scrivendo il mio libro migliore. Voglio che tutta quella brava gente sulla riva che sventola bandierine di carta riconosca che Herry Lesser è il re David con la sua arpa a sei corde, solo che le note sono parole e i salmi narrativa.

La (santa) pazienza di chi vive con uno scrittore.
“Irene, non posso venire a letto con te stanotte. Lo sai, il libro… Sono arrivato a un passaggio molto difficile. Ho bisogno di tutta la mia forza e del mio succo per lavorarci domattina. Aspetta fino a domenica.”
“Lo odio quel tuo libro schifoso”, aveva detto Irene.

Il bisogno di qualcuno che ti dica dove la storia non funziona, bisogno che si pesta a sangue col desiderio di sentirsi dire che tutto è perfetto.
“Quello che voglio sapere è se sono riuscito a descrivere bene il ragazzo e sua madre. Sono veri, sono reali? Non prendermi per il culo, Lesser.”
“Fino alla morte della madre,” disse Lesser, “ma non dopo, nella coscienza del ragazzo.”
Alzandosi in piedi con un urlo, Bill scaraventò il manoscritto contro la parete. I fogli gialli fecero un tonfo secco, poi si sparpagliarono sul pavimento.

L’orrore di quando senti di aver sbagliato tutto…
Ieri mi era sembrato di aver buttato giù delle pagine molto buone, ma quando ci ho ripensato tutto quello che avevo scritto è saltato in aria nella mia testa come un castello di carte. Cristo, una cosa del genere ti ammazza.

… e (grazie, Malamud!) un modo per uscire dalla palude.
Se ti metti alla distanza giusta è più facile ritrovare la prospettiva. A volte scelgo uno dei primi capitoli e lo ribatto a macchina, prendendo appunti su tutto quello che non mi soddisfa. Questo è un modo per riuscire a capire, ma ce ne sono altri.

La depressione nera in cui cade lo scrittore che non riesce a scrivere…
Lesser sentì la depressione posarglisi sulla testa come un corvo malato. Quando non riusciva a scrivere gli venivano dei dubbi sul proprio io; ciò si esprimeva in riserve sulla natura del suo talento – era veramente talento, o un’illusione che si era costruito per continuare a scrivere?

…e , di nuovo, un consiglio su come venirne fuori.
Un uomo ha il diritto ogni tanto di essere stufo. L’unica cosa che deve fare per scacciare dal cranio quell’uccello vomitante, dissipare lo sconforto che gli impedisce di lavorare, è tornare a sedersi alla scrivania con una penna in mano; senza domandarsi che cosa otterrà o non otterrà scrivendo.

Anche per quando succede la peggiore delle cose che possono succedere a uno scrittore, la perdita di un manoscritto, Malamud ha parole d’incoraggiamento.
Non è tutto, non è tutto. Il libro non è lo scrittore, è lo scrittore che scrive il libro. È solo un libro, non è la mia vita. Lo riscriverò, sono io lo scrittore.

E quando, nonostante tutto, lo scrittore fallisce?
Tutte le mattine, tuttavia, tenevo la penna stilografica in mano e la muovevo sulla carta. Formava delle linee, ma non delle parole. Mi venne addosso una grande tristezza.

Pietà di me. Pietà pietà pietà pietà pietà pietà pietà pietà pietà pietà pietà pietà pietà pietà pietà pietà pietà pietà pietà pietà pietà pietà pietà pietà pietà pietà pietà pietà pietà pietà pietà pietà pietà pietà pietà pietà pietà pietà pietà pietà pietà pietà pietà pietà pietà pietà

Così chiude il romanzo Malamud: con la parola pietà, ripetuta per tutta la pagina. Pietà, senza nemmeno il punto alla fine. Pietà, per lo scrittore che fallisce.
E io faccio una cosa che non avevo mai, mai, mai fatto alla fine di un libro: applaudo.

Ora. Se tu non sei uno che scrive, forse non sei nemmeno arrivato in fondo a questo mio noiosissimo, fanatico post. Se tu non sei uno che scrive, ma sei arrivato a leggermi fino qui, allora meriti, per la pazienza, che io ti dica una cosa: è probabile che gli altri libri di Malamud ti piacciano più di questo. Il commesso, Le vite di Dubin, L’uomo di Kiev... 
Io, invece, so che nessun libro potrà abbracciarmi più di questo.
Perché a te e a me piacciono cose diverse.
E pure a me e a me. Va a seconda dei giorni. Dell’umore. Del periodo della vita.


4 commenti:

Palilli ha detto...

...e se anche anche chi ti legge piacesse scrivere??
Ciao bellezza, proverò a leggere qualcosa di questo autore
a me sconosciuto. Grazie

Unknown ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Unknown ha detto...

Paoletta, questo È un post per chi scrive! ;)

claudio di manao ha detto...

da piccolo odiavo a morte il marrone e mi piaceva d'annunzio. quattro anni fa adoravo il grigio. leggendo il tuo post ho deciso che è il grigio il colore del fango.
un giorno ti spacchi la testa su un paragrafo. un mese dopo ti accorgi che quel paragrafo non serve più. un giorno sei a secco di idee. una settimana dopo ne hai troppe che ti senti soffocare ed esci in bicicletta col gatto.

il piagnisteo della pagina bianca ormai sa di dejavu. tu pensa al minatore con la parete di roccia davanti. io preferisco mille volte il senso di fallimento e di depressione profonda da crisi isterica sul manoscritto che un'ora nel traffico. ma per vivere, ti tocca sempre più traffico e muro di roccia che aulica, dolorosa, nobile, profonda passione d'artista.
soprattutto se sei un artista.