Mi aspettano a Santo Stefano al Mare, vicino a Imperia, per presentare "Mara conta i passi".
Sono
in ritardo, non è da me. Apro la porta e mi trovo davanti una scala: qualcuno
ha deciso che questo era il momento giusto per salire in soffitta.
E la botola per la soffitta è
davanti a casa mia.
E la scala è davanti alla mia porta.
Il sangue napoletano
ribolle. “Sotto la scala vuoi passare? Ma ti sei ammattita, nennella? Sventura e
disgrazia, non si passa sotto la scala, mai!”
Sono
le dieci e un quarto, il treno parte tra quaranta minuti. Faccio appello al
raziocinio austriaco: a meno che la scala non mi cada in testa,
non può succedere proprio niente a passarci sotto. E poi ho la pietra Dokrostone con me, mi protegge. Coraggio.
Scendo
di corsa le scale (sei piani, i soliti sei piani) e sudo e arranco fino alla
fermata del bus. Il tabellone futuristico mi avvisa che il 7 passerà tra venti
minuti. Sbianco mentre penso che la tecnologia serve solo a dirti che i mezzi
pubblici fanno cacare.
Passeggio avanti e indietro senza appoggiare borsa
grande con mutande e libri, borsa piccola con portafoglio e telefono, borsa media
con Funo (il mio portatile, si chiama così). Sembro una giostra, un calcinculo
coi seggiolini mosci. Ho pure scordato di mettere gli anelli e sento le dita nude. Provo a stare
calma, mando un tweet dissimulando la disperazione ma sperando che qualcuno la
senta lo stesso e mi mandi una virtualcarezza d’incoraggiamento. Che arriva. Insieme al maledetto 7.
Venti minuti.
Tutto
fila, lento ma liscio, e arriviamo a cinque metri dalla fermata che mancano
dieci minuti alla partenza del treno. Ma c’è un accrocchio di autobus (è
sabato, c’è il sole, è pieno di quei pullman con le orecchie che portano a spasso i turisti) e il 7
si ferma. Siamo a uno sputo dalla fermata, e si ferma. Mi alzo, con borsa borsone borsetta, e mi lancio in braccio al
cocchiere.
“Non
è che puo' aprire qui?”
“No.”
Sette minuti.
Il
groviglio si scioglie, l’autobus avanza, si ferma, apre le porte. Mi precipito
sul marciapiede e corro, con borsa borsina borsone che pesano di più a ogni
passo; c’è una scolaresca più avanti, non me la sento di attraversare quel mare di marmocchi, così decido di attraversare in un punto dove
non attraverso mai.
Cinque minuti e cinquecento metri: impossibile.
Ma
c’è un passaggio.
Non
c’era, giuro.
È
comparso nel muro, una roba tipo la Stanza delle Necessità di Harry Potter, e
mi porta dritto dentro la stazione, nell’atrio, davanti al tabellone che mi dice respira, il tuo treno è in ritardo di dieci minuti. Sta arrivando proprio ora. Al binario 17.
(Sì, vabbè, starete pensando: la scala, l'autobus, l'ingorgo, il
passaggio segreto, il binario 17. Ma poiché il bello deve ancora
venire, vi dico fidatevi o smettete di leggere. Ora.)
Il
treno sta entrando in stazione, ho giusto il tempo di controllare il numero del
posto assegnatomi dal sistema automatico di prenotazione.
La carrozza è la numero
7.
Il posto è il 42.
Sì! Finalmente un buon segno! Adams, proteggimi tu!
Le
porte del treno si aprono, lascio scendere chi deve (chiude la fila una tizia coi capelli
viola: Tonks!) e salgo sulla carrozza 7, alla ricerca del posto 42. Avanzo
ingoffita da borsa borsone borsetta (ormai di piombo), lo trovo.
E resto di pietra: nel posto 44, cioè quello di fianco al mio, c’è Mara
bambina: i capelli di fuoco, la pelle di neve, la bocca socchiusa sui denti
imperfetti. Guarda per terra mentre mangia un panino. Col prosciutto, credo.
La
bambina si chiama Denise. Avrà dieci anni e in questo momento, seduta di
fianco a me, sta leggendo il mio libro. Ha appena detto a suo padre: “Sto per leggere il capitolo due. Ora ho capito perché ci sono tutti questi disegni sulla copertina: è una scienziata!”
Sì, il libro di Mara, il mio libro (il suo libro!), gliel’ho regalato. E lei, in cambio, mi ha regalato un anello. Un anello figo, da grande, non uno di quei cosilli con le ciliegie, quegli affari da principessa frufrù.
Sì, il libro di Mara, il mio libro (il suo libro!), gliel’ho regalato. E lei, in cambio, mi ha regalato un anello. Un anello figo, da grande, non uno di quei cosilli con le ciliegie, quegli affari da principessa frufrù.
Che ci faceva, Denise (ma sei sicura di chiamarti Denise?), un anello così nella tua borsa di bambina? Aspettavi qualcuno a cui regalarlo?
Aspettavi me?
Aspettavi me?
Grazie bambina.
Ora le mie dita non sono più nude.
Ora le mie dita non sono più nude.
Ora posso passare sotto tutte le scale del mondo.
(Ma la pietra Dokrostone me la tengo lo stesso. Sapete com'è.)