giovedì 19 settembre 2013

Domani

Mi sveglio con un sapore di sangue in bocca. 
Macheccazz? 

Apro gli occhi e m’aggredisce un flash. 
Mi copro con una mano e penso no. 
Oh no. 
No, ti prego no, non oggi.  
Dobbiamo partire. Attraversare tutta la Sardegna, prendere un aereo, tornare a Genova.

Penso che forse mi sono sbagliata. Che magari quelle luci venivano da una macchina di passaggio, che forse il sole è rimbalzato sulla carrozzeria, sugli specchietti, sul bracciale di diamanti di una qualche ricca troia.
Mi faccio coraggio e tolgo la mano dalla faccia: un albero di Natale, di quelli pacchianissimi, balla un pezzo jungle in un angolo dell’occhio destro.

Ce l’ho nello stoppino.

L’Omonero entra in camera tutto energico.
“Vieni, la colazione è... Tutto bene?”
“No.” 
La mia voce rimbomba cento volte, e fa male: ci siamo, è già qui.
“Che c’è?”
“Emicrania,” dico, stavolta in un sussurro. 
“Oh cazzo. Come facciamo? Non possiamo partire se stai così.”

Riesco a dire una cosa sola: TORADOL.

“Sì, ce l’abbiamo. Ma non ho le siringhe. Puoi metterlo sotto la lingua però.”
Io ormai non riesco più a parlare. Faccio un piccolissimo no con la testa, e tanto basta: un’ondata di nausea mi investe, reprimo a fatica un conato. Così l’Omonero capisce perché il Toradol sotto la lingua non è una buona idea.
“Ok, vado in farmacia. Torno subito.”
Col ditino indico la finestra: uccidi la luce prima. Ti scongiuro.


Nosferatu, il vampiro - 1922


Resto sola, al buio, mentre il dolore cresce, continuo, acuto, come una nota altissima di quelle che spaccano i bicchieri; senza tregua, senza respiro.
Sono sudata marcia. Ho la nausea. Forte. E mi fanno male i denti, le gengive, che devo aver digrignato tutta la notte. 

Ho bisogno di acqua. Fredda. 
Aspetto che torni l’Omonero. 
No. 
Non ce la faccio.

Rotolo su un lato, scivolo giù dal letto, mi trascino in cucina. Mi riempio la bocca di acqua gelida, che sfiammi cazzo, o almeno anestetizzi un po’. Tanto da dover sopportare un dolore solo. Bevo ancora, ma non è una buona idea.

Quando l’Omonero torna mi trova con la testa nel cesso.
“Poverina! Sembri Christiane F.”
Riderei, se non stessi per morire.







Mi riporta a letto, mi scopre una chiappa e mi fa l’iniezione. Brucia, porcaputtana.
“Stai lì un po’. Io finisco di fare i bagagli, tu prova a riposare. Vuoi che ti chiuda la porta?”
Ci penso un attimo. Con l’emicrania la mente viaggia veloce (e catastrofica), e in una frazione di secondo mi vedo che peggioro (ma può essere peggio di così?), che cado, che sono per terra rantolante ma lui non mi sente.
Gli dico no, sempre usando il ditino: niente voce, niente movimenti della testa.

E come l’Omonero se ne va, un cagnetto nella via inizia ad abbaiare.




Cagnetto. 
Maledetto cagnetto. 
Perché non ho chiuso quella cazzo di porta di merda. 
Cagnetto piantala. 
Cagnetto infame, tu non lo sai che 

ogni

tuo 

latrato 

è un pugno sull'elsa della spada che mi divide il cranio a metà.
Stronzo d’un cagnetto di merda figlio di puttana, piantala. 
Ora vengo lì. E ti pianto nel culo la siringa, così te lo do io un buon motivo per bèbèbèbèbèbèbèbèbèbèbèbèbèbbè. 
Gli dico così. Come mi diceva mia madre quando me le dava col battipanni. Glielo dico con la telepatia. E in qualche modo mi sa che mi sente, perché smette.

Silenzio. Buio. Caldo alle piante dei piedi.
Il Toradol non mi toglie il dolore, ma si appende alle palpebre, che diventano di piombo. 
“È ora di andare.”
L'Omonero mi porta di peso in macchina. Mi rannicchio, nascondo la testa nelle braccia, sprofondo nel limbo. Non è dormire, quello. È coma profondo.


Benedetto sia il Toradol. Benedetto, e benedetto il suo inventore.
Mi sveglio due ore dopo rincoglionita come mai. Il dolore è sceso di quattro toni, è sordo ora, ovattato, morbido.



“Dove siamo?” 
“Boh. Dopo Oristano, in mezzo alla campagna. È bello sentire di nuovo la tua voce. Stai meglio?”
“Meglio, sì.”
“Ti va se ci fermiamo un po’?”




Autogrill. Provo a mangiare un pezzetto di focaccia al pomodoro, ma capisco che è meglio di no. 
Seduta sul marciapiede, all'ombra,  mi godo il fresco e guardo l’Omonero che dà una pulita alla macchina: lava il vetro, aspira briciole e sabbia. Al noleggio ci avevano detto che, se l’avessimo riconsegnata sporca, ci avrebbero addebitato una cifra tra i diciotto e i settantadue euro. Così: diciotto e settantadue. Cifre a caso.

“Te la senti di ripartire? La strada è ancora lunga.”
Mi sento male al pensiero di tornare in macchina, ma si sta facendo tardi.
“Sì.Sì, ce la faccio.”



Arriviamo in aeroporto dopo altre due ore. L’emicrania si è ormai sciolta in pulsazioni sporadiche. 
Tipo polpo che nuota. 
Rispetto a come stavo, sono un fiore.

L’Omonero scarica la macchina, trasporta le valigie, io gli cammino dietro appoggiando piano i piedi per terra: le vibrazioni ancora mi danno la nausea.
Mi appoggio coi gomiti al bancone dell’autonoleggio. Consegniamo le chiavi, l’Omonero e l’Omosardo vanno a controllare che la macchina sia intera. Che abbia il pieno di benzina, ma con un ottavo in meno, che così ce l'avevano data. 
Io aspetto, mi reggo la testa con le mani.

Quando tornano, l’Omosardo annuisce, firma il modulo. Non ci addebitano i diciottosettantadue euro per lo zozzume. Bene.
L’Omosardo, però, solleva un sopracciglione.
“Consegnate un giorno prima, giusto?”

Giorno prima?

Ci guardiamo. 
Sento freddo.
L’Omonero prende dalla tasca i documenti del volo.
Avvicina il foglio alla faccia cupa.
Chiude gli occhi un istante.
Solleva lo sguardo.

Domani.
Il nostro volo è domani.