giovedì 18 aprile 2013

Orrore ed empatia



In due soli giorni il nostro respiro, mio e dell’Omonero, si è fermato due volte: la bomba a Boston, il terremoto in Iran. La numerosa famiglia di Bak, che da oltre dieci anni è anche la mia, vive in parte a Boston, in parte in Iran.
L’epicentro del terremoto era a sud, dunque lontano da Teheran e da Gorgan, le città dove vivono Papino, la zia Cozza, Amù Sibilù, la famiglia Polpetta.
Primo sospiro.
Per una serie di coincidenze (e poi ditemi che il fato non esiste) nessuno dei nostri cari era alla maratona di Boston: il marito della cugina Susan quest'anno non ha partecipato, il cugino Parham ha deciso di non portare sua figlia a vedere i corridori al traguardo, mamma Ati non era  in città.
Secondo sospiro.

Stamattina un amico mi gira un articolo dal titolo The Boston Marathon Bombing and the Limits of Human Empathy: la gente freme d’orrore e si scioglie in lacrime d’angoscia di fronte alle vicende di Boston, ma resta fredda e indifferente davanti a chi ogni giorno muore sotto le bombe degli americani.

What are the limits of human empathy?  3 people were killed and many dozens injured and maimed by the Boston Marathon bombing on Monday. By comparison, many more people are killed by American drones and other weapons of war on a weekly, if not daily basis, across the Middle East and in other parts of the world.
The language of "war" and "terrorism" deems these people not human, but rather "targets" and "terrorists" to be "neutralized."

L’autore dell’articolo, in soldoni, si chiede perché i morti di Boston ci facciano piangere e quelli in medio oriente no. Si chiede quanto debbano essere lontani, quanto debbano essere diversi da noi gli uomini perché il loro dolore non ci tocchi.



Entro certi limiti potrebbe pure essere normale una sorta di “graduatoria”. Cioè: mi fa male pensare alle vittime del terremoto in Iran e ai morti di Boston, ma se ci fosse stato lì in mezzo qualcuno dei miei familiari starei peggio.
Però.
Sarà che sto vivendo il momento più difficile della mia vita, e che di fiducia nel genere umano non ne ho più, ma a me viene da fare la domanda alla rovescia: quanto devono essere vicini, quanto devono essere simili a noi le persone perché il loro dolore sia anche il nostro? Per riuscire a provare empatia?

Copincollo da Wikipedia la definizione di EMPATIA.

L'empatia è la capacità di comprendere appieno lo stato d'animo altrui, sia che si tratti di gioia, che di dolore. Empatia significa “sentire dentro” ed è una capacità che fa parte dell’esperienza umana. Si tratta di un forte legame interpersonale e di un potente mezzo di cambiamento. Il concetto può prestarsi al facile riduttivismo mettersi nei panni dell’altro, mentre invece significa andare non solo verso l’altro, ma anche portare questi nel proprio mondo. Essa rappresenta inoltre la capacità di un individuo di comprendere in modo immediato i pensieri e gli stati d'animo di un'altra persona. L'empatia è dunque un processo: essere con l'altro. L’empatia costituisce un modo di comunicare nel quale il ricevente mette in secondo piano il suo modo di percepire la realtà per cercare di far risaltare in se stesso le esperienze e le percezioni dell'interlocutore. È una forma molto profonda di comprensione dell'altro perché si tratta d'immedesimazione negli altrui sentimenti. Ci si sposta da un atteggiamento di mera osservazione esterna (di come l'altro appare all'immaginazione) al come invece si sente interiormente (in quei panni, con quell'esperienza di vita, con quelle origini, cercando di guardare attraverso i suoi occhi).



“Nessuna empatia per i figli del medio oriente,” dice il tizio dell’articolo.
“E per quelli che ci abitano di fianco invece sì?” chiedo io.
Ci dispiace sul serio per le vittime di Boston?
Per quelle del terremoto in Abruzzo?
Per il tizio del palazzo di fronte che ha perso la moglie?
Per il fruttarolo di sotto che gli hanno bruciato il furgone?

Quanto vicine devono essere le persone perché le loro vicende ci tocchino?

Quando, un anno e mezzo fa, la società per cui lavoro è stata venduta, dei cinquecento dipendenti solo uno ha perso il lavoro.
Uno.
E non era uno di una qualche misteriosa sede distaccata, uno che a malapena sai che esiste, era uno che da quattro anni lavorava con noi, culo a culo.
Uno bravo.
Uno che però non era disposto a sposare la società. Uno che col cacchio che passava le sere e i fine settimana in ufficio. Uno che per quattro anni (quattro!) gli han fatto contratti a termine, sperando così di ricattarlo, di convincerlo a immolare il suo tempo libero, di barattare la sua devozione con un contratto vero. Non ha mai ceduto, e così, cogliendo l’occasione del cambio dei padroni, l’hanno lasciato a casa.
Anche se qui c’è bisogno di lui.
Anche se viviamo uno dei peggiori momenti di crisi della storia e tutti sanno che trovare un altro lavoro è durissima.

E quelli che per quattro anni hanno lavorato con lui l’hanno sentita, l’empatia?
Come no.
“Lo sai? Non gli rinnovano il contratto, da dicembre è a casa.”
“Eh, beh. D’altra parte, se l’è cercata. Sempre così poco disponibile...”
Tutti a guardare dall’altra parte. Tutti sollevati che sia successo a lui e non a noi. Una scrollata di spalle e via.

Empatia.

Siamo capaci di sentire dentro solo se muore nostra madre.
E anche in quel caso, mi chiedo se in fondo non ci sia una vocina a dire fortuna che non ci sono io, su quel cazzo di letto di raso nero.