lunedì 29 ottobre 2012

FORESTO




Ho gli occhi incollati. Mi stropiccio la faccia ruvida e che palle: mi tocca farmi la barba. Oggi è giorno d’ispezione. Che per passare uno straccio fetente sul pavimento di una stazione pare ci sia bisogno di sembrare damerini. Ma io sto zitto, mi faccio gli affari miei. Sarò lustro come un bambino il primo giorno di scuola: basta che mi lascino in pace.
Guarda, Ispettore: mi faccio la doccia, mi striglio, mi sbarbo e mi pettino questi quattro peli così, all’indietro, come un attore del cinema. Non sono neanche male, una volta ripulito. Non fosse per 'sto naso.
Al diavolo, è tardi. Devo andare.
È buio pesto, maledetto sia l’inverno infinito. La mano che regge il sacchetto con la divisa è gelida e spaccata sulle nocche; la pelle secca sanguina e brucia, e brucia la faccia appena rasata contro la lana del cappotto.
Sbatto forte i piedi mentre aspetto l’autobus e una fighetta in tiro mi lancia un’occhiata sbilenca. Sbatto i piedi più forte di prima, lei si volta e si allontana qualche passo. Brava, levati di torno.
Occupo l’ultimo posto libero sul bus, piazzo il sacchetto tra le gambe, mi accomodo, sospiro e il tizio che mi sta di fronte indietreggia. Non mi sono lavato i denti. Devo ricordarmi di non fiatare durante l’ispezione.
Il dondolio è soporifero, ma se mi addormento perdo la fermata e magari, pure, mi spettino. La lotta contro il sonno è crudele,  fa male al cuore, così mi alzo: non manca poi molto.
All’orizzonte, una striscia chiara denuncia il giorno. L’ennesimo giorno di merda.
Percorro spedito il viale alberato; in fondo, tra gli ippocastani nudi, mi aspetta la stazione: austera, imponente e lucida d’umido. Salgo la scalinata evitando i viaggiatori frenetici, attraverso l’atrio, caracollo davanti alle vetrine dei negozi spenna-allocchi, supero i cessi e sguscio nello spogliatoio.
Di spalle alla porta, mi sono appena infilato la divisa e sto bestemmiando perché la tintoria mi ha fatto saltare un bottone, quando un coppino mi spedisce col muso contro lo sportello dell’armadietto. So che è il Corto ancor prima di alzare la testa.
“Ti sei fatto bello, eh? Leccaculo!”
Stringo i denti e un sapore di ferro mi riempie la bocca.
“Vuoi far contento l’ispettore, vero ruffiano?”
E mi molla uno scappellotto da sotto in su,  lui, che è più basso di me di una testa.
“Non voglio guai,” gli dico. “Lasciami in pace.”
Mi spinge contro il muro, temo un cazzotto in testa, ma qualcuno bussa ed entra: l’Ispettore. Ci ricomponiamo in un istante, io mi liscio la divisa e comincio a pregare che  non si accorga del bottone.
“Le manca un bottone,” sibila viscido. Vestito di nero da capo a piedi, la bocca che è un taglio nella faccia da morto, sembra un vampiro.
“Mi dispiace, signor Ispettore, sono mortificato; ma la tintoria…”
“Non mi interessano gli affari suoi,” dice schifato, neanche gli stessi raccontando dei miei funghi; poi mi rendo conto di avergli alitato in faccia.
"Apra l'armadietto," dice.
I miei vestiti sono piegati, i calzini infilati nelle scarpe appaiate. Mi liscio i capelli mentre lui estrae il taccuino nero.
"Un richiamo per quel bottone. È il secondo in un mese," dice allungando la esse.
Annuisco fissandomi i piedi. Ingoio un grumo di vergogna e paura e aspetto il seguito. Che non arriva.
L'Ispettore passa oltre e si sposta davanti al Corto. Non è più così spavaldo ora che ha davanti Nosferatu e, ci scommetto, rimpiange di non aver messo più cura nello sbarbarsi, stamattina: un'isola di peli sul mento violaceo attira l'attenzione dell'Ispettore che scuote la testa inorridito. La divisa ha tutti i bottoni, ma è sgualcita e macchiata e nell'armadietto sembra sia passato un tornado. Il deodorante alla lavanda si mischia al tanfo di formaggio; l'Ispettore, rapido, richiude. La foto di una zoccola bionda si stacca dall'anta e svolazza nello stanzino.
L'Ispettore annota, muto.
Il Corto sposta il peso da una gamba all'altra e accarezza col pollice lo spigolo metallico dell'armadietto. Un sorriso beota vorrebbe forse ingraziarsi Nosferatu.
L'Ispettore fa il giro dello spogliatoio in tre passi, ficca il naso affilato nei cassetti, esplora il bagno e l'armadio delle scope. Scrive.
Apre il borsello di pelle, mette via il taccuino, si spolvera disgustato una manica, aggiusta il foulard e apre la porta. Sulla soglia, rivolto a me, dice: "Vada immediatamente in sartoria e si faccia cucire quel bottone. Non l'ha perso, vero?"
L'ha perso quella cazzona della lavandara, mica io. Il bottone dorato con il logo della stazione.
"Nossignore, non l'ho perso," mento.
"Meglio per lei."
Guardando il Corto dall'alto, aggiunge: "Il terzo richiamo in un mese. Vada pure a casa: la lettera di licenziamento le arriverà in giornata dall'amministrazione."
Chiude la porta e la conversazione. Il moto d'aria sposta il ciuffo dalla faccia attonita del Corto. Occhi sbarrati, sembra un coniglio selvatico paralizzato dai fari, finché lo sconcerto diventa collera e gli occhi, prima tondi, diventano due fessure, mentre la bocca si chiude e si piega in una smorfia feroce.
Mi appiattisco sulla porta dell'armadietto. Ora se la prende con me, sta' a vedere. Ma no. Si strappa la divisa con un grugnito, ci sputa sopra che è ancora in mutande, la prende a calci, prende a calci il muro, l'armadietto. L'anta vomita fuori i suoi vestiti sudici, le scarpe rotolano a terra. Si riveste masticando parole di rabbia, infila la porta e sparisce alla mia vista.
Mi accascio a terra, sgonfio per lo scampato pericolo. Resto così trenta secondi, occhi chiusi e testa appoggiata al muro, a riprendere fiato. Mi scuoto, tiro fuori il coltellino dalla tasca dei pantaloni e, uno a uno, stacco i bottoni dalla divisa strappata del Corto. A lui non servono più e io mi salvo le chiappe. Butto la divisa nell'immondizia. Se qualcuno mi chiede, dico: "È stato lui."

Capelli raccolti in una crocchia, tailleur color fango e decoltè corallo. Sembra che il buon gusto abiti altrove, ma la realtà è che quello non è il suo stile: è il capo che la vuole così. Il capo, che pretende tutto pronto per ieri, così le giornate non hanno fine e le domeniche le passa in ufficio, mentre lui, il capo, se la spassa in barca. E guai a chiedere due soldi in più. Ogni mattina, alla stazione, la tentazione di salire su un treno per il sud è forte. Andare via, mollare tutto. Troverà mai il coraggio?

Appoggio scopa e carrello al muro e busso. Aspetto. Forse ho bussato piano. Busso, stavolta più energico.
"Avanti!" gracchia una voce.
La Vecchia ci sta dando dentro con la macchina da cucire: pedala, pedala, rototom. Ci credo che non sentiva i colpi alla porta. Mi fissa da sopra gli occhialetti a mezzaluna e chiede: "Cosa vuoi?"
"Signora, ha tempo per ricucirmi un bottone?"
"No che non ce l'ho. Non vedi?" dice, indicando una pila alta fino al soffitto di giacche scucite e braghe senza orli.
"Dovrò portarmi il lavoro a casa. Anche oggi."
Rototom rototom.
"Se mi presta un ago faccio da solo," dico io. Che se incontro l'Ispettore faccio la fine del Corto. E poi come lo pago l'affitto della topaia.
"Nel cesto, là sul davanzale," grida la Vecchia.
Seduto su uno sgabello di legno, cucio il bottone alla bell'e meglio. Saluto la Vecchia, riprendo il carrello e mi incammino.

Bello e sorridente, gira con la più gnocca della scuola. Due sfigati gli passano accanto veloci.
"Calma, calma. Dove correte?"
I due si scambiano un'occhiata nervosa.
"Voi li avete fatti i compiti, vero?"
Il più basso avvampa.
"Certo che è vero. Che altro avete da fare, voi due?" dice ghignando. Anche la gnocca ride.
"Forza. Non ho voglia si sporcarmi le mani sulle vostre facce pustolose."
Paonazzi, aprono gli zaini e gli allungano i quaderni.
"Che bravi. Quando ho finito di copiare ve li riporto. Se me lo ricordo."
La gnocca gli porta i quaderni e lo abbraccia; se ne vanno, seguiti dagli sguardi invidiosi di tutti.
"Lo sai, vero, che non li riavremo mai?" dice quello basso.
"Certo che lo so. E ora?"
"E ora ci becchiamo un'insufficienza. Chi glielo spiega a mia madre?"
Quello alto, pensieroso, tira gli elastici dell'apparecchio per i denti.
"Andiamocene," dice.
"E dove?"
"Via di qui, chi se ne frega. Andiamo in stazione e prendiamo un treno a caso."
“E mia madre?”
“Penso io alla giustificazione: sono bravo con le firme.”

La sala d'attesa a quest'ora è mezza vuota.
Raccolgo biglietti usati, cartacce, polvere e fango secco. Se la gente guardasse dove mette i piedi...
Pulisco tutto e sento nella testa la voce dell'Ispettore: "Voglio i pavimenti a specchio, ci si deve poter mangiare. Il decoro della Stazione dev'essere il vostro obiettivo, la vostra missione." Tutte quelle esse. Unghie sulla lavagna.
Pulisco sapendo che tra un'ora sarà tutto come prima. Pulisco sapendo che dovrò rifare tutto ancora e ancora. Scopo con stizza, sollevo una nube di polvere e investo un Foresto seduto da solo in un angolo. Lui non protesta, io proseguo senza chiedere scusa.

"Le sue analisi sono preoccupanti," aveva detto la dottoressa al ciccione sudato. E l'aveva messo a dieta ferrea: niente dolci, niente grassi, niente alcol. È un mese che il ciccione non riesce a dormire: pensa al cibo, ascolta lo stomaco che brontola, tenta il sonno con la tv, ma la pubblicità è una tortura di intingoli. Allora esce, cammina per la città fredda, allunga il passo e serra la mascella davanti ai bar. È mattina, ce l'ha quasi fatta. Ma il profumo di fritto del bar della stazione è inebriante.

Prendo uno straccio dal carrello e levo le ditate dalle maniglie e dai vetri della sala. Il Foresto mi osserva impaziente, forse spera che me ne vada. Bello mio, sapessi quanto vorrei accontentarti. Con la coda dell'occhio, lo vedo afferrare lo zaino da sotto la sedia, appoggiarlo sulle ginocchia, aprirlo e prendere un contenitore di plastica azzurro e una forchetta. Quando toglie il coperchio, una zaffata pestilenziale mi investe e satura l'aria già viziata della sala d'attesa. Mi lacrimano gli occhi e mi copro naso e bocca con la manica mentre guardo il Foresto avido infilarsi in bocca un coagulo di roba verde. Cristo, che schifo. Hai vinto Foresto, levo le tende. Torno dopo a finire qui dentro.
Raccatto straccio e scopa e vado verso l’uscita. Il Foresto sorride con gli occhi, si lecca le labbra verdi, fa un cenno di saluto con la testa. Rabbrividisco e non ricambio, in fuga da quel fetore.

La cravatta e lo schifo gli stringono la gola. Corre nell'atrio, verso la biglietteria. Per inseguire i brutti pensieri, perde il treno.
"Maledetta troia. Troia e imbecille: lo sai che la faccio io la lavatrice, no? Se proprio devi scoparti quel porco del tuo capo, puoi almeno togliere i suoi bigliettini osceni dalle tasche? Imbecille io, che t'ho sposata. Ma vedrai che sorpresa, stasera, quando la chiave non aprirà la porta."

Appena fuori dalla sala d'attesa, qualcuno mi scontra: il Corto. "Sei ancora qui," gli dico. I suoi bottoni mi bruciano in tasca.
"Sì, sono ancora qui," dice lui, aromatizzato alcolico.
"Sei ubriaco."
"Sono ubriaco, sì, sono ubriaco, allora?" sbraita aggressivo. Ma perché non sto zitto?
"Scusa," biascico.
Qualcosa lo distrae e mi salva, per la seconda volta. Oggi non gioco alla lotteria, la mia dose di culo me la sono spesa.
"Cos'è 'sto tanfo? Te la sei fatta sotto?"
"La colazione di quello lì," dico indicando col mento il Foresto. Il Corto entra nella sala come una furia. Ho già capito come va a finire, mi porto fuori tiro. Trascino piedi e carrello lontano, zigzagando tra la gente. Ho lasciato i guanti in sala d'attesa, porco demonio. Mi volto e vedo Il Corto inveire contro il Foresto. Non sento quello che dice, sembra un pesce chiatto in un acquario squallido. Il Foresto, rannicchiato sulla sedia, sta chiudendo in fretta il contenitore del suo cibo immondo. Il gesto non placa il  Corto.
La gente rallenta.
Una donna grassa porta via il marito di peso.
La Vecchia, in pausa dal suo rototom, cammina e mastica un dolce con le gengive; nota il trambusto, si ferma. Ha un’aria sadica e goduta.
Due ragazzotti, zaini in spalla e facce da pirla, si piazzano davanti allo spettacolo del Corto che spintona il Foresto. Ridono.
Altri si aggiungono, qualcuno finge di non vedere.
Ramazzando, ostento indifferenza e mi avvicino di qualche passo.
Il Foresto raccoglie le sue carabattole, si fa piccolo piccolo e, carponi, tenta di uscire dalla sala d’attesa. Il Corto è troppo ubriaco e troppo incazzato per lasciarlo andare: lo agguanta per il collo della camicia, come farebbe con un gatto rognoso, e lo butta fuori, nell’atrio.
Una donna si sposta di lato, inorridita, e lascia che rotoli sul pavimento, di fianco alle sue scarpe corallo.
“Ti ho fatto una domanda,” gli sta gridando il Corto. “Capisci la mia lingua?”
Il Foresto è tutto occhi. Trema.
“Ti comporti così a casa tua? Smerdi in giro?”
Sono a mezzo metro dal gruppo, seminascosto da un pilastro; ramazzo, taccio, sbircio tra le ciglia; un tale incravattato chiede: “Cos’ha fatto?” e sento la donna rispondere: “Ha usato la sala d’attesa come gabinetto.”
“Cosa? Ha cagato là dentro?”
“Sì, sulla poltrona," risponde il ragazzotto basso. "E quel tizio è stato licenziato per colpa sua.”
“Figlio di…”
“Sì, figlio di puttana!” grida un ciccione sudato. “Torna da dove sei venuto, schifoso!”
La folla cresce. La rabbia pure. Tutti sono certi che il Foresto l’abbia fatta in sala d’attesa. E che il Corto sia stato licenziato perché l’Ispettore ha trovato la torta fumante sulla poltrona.
Il Foresto è circondato, stringe lo zaino tra le braccia, ha la testa incassata nelle spalle. Aspetta le botte, sa che arriveranno. Non emette un suono mentre lo spazio intorno a lui si riduce. Il ragazzotto basso fa per sferrargli un calcio, ma, imbranato come nessuno, calibra male, perde l’equilibrio e cade. L’altro viene avanti e grida: “Avete visto? Gli ha fatto lo sgambetto, ha fatto cadere il mio amico!”
Gli tira un calcio in un fianco ed è come un gong: il tale incravattato immobilizza il Foresto da dietro, i ragazzotti e il ciccione lo riempiono di calci e pugni e sberle, perché ha cagato a casa nostra, perché ha fatto licenziare uno di noi, perché ha picchiato il mio amico, perché mia moglie si scopa il suo capo, perché la mia faccia è un campo di pustole, perché ho una fame che mangerei Dio. Perché.
Esauriti i perché, la folla si spegne, si disperde, ognuno va per la sua strada. La Vecchia sputa sul corpo del Foresto, tutto bubboni e lividi e sangue. Il Foresto non si muove. Stringe ancora lo zaino.
Piano, lento, assicurandomi che nessuno mi veda, vengo fuori da dietro la colonna e mi avvicino. Una bolla di sangue da una narice si gonfia e scoppia: il Foresto respira. Chiamo l’ambulanza, ma quando chiedono il mio nome, attacco. Mi faccio i fatti miei, io. Non voglio guai. Prima di sparire anch’io, leggo sullo zaino il nome del Foresto.

Un grave episodio di razzismo si è verificato ieri mattina alla Stazione Centrale. Lo straniero, Roberto Parodi, è all'ospedale con una prognosi di dieci giorni. Aveva lasciato l'Italia e la sua città, Genova, solo una settimana fa, in cerca di un lavoro. Gli aggressori non sono ancora stati individuati.


3 commenti:

Omonero ha detto...

Bello, bello, bello. Brava!
E che gran pezzo sei andata a scovare....

Unknown ha detto...

cacchio. grazie.

Unknown ha detto...

Duro, cattivo, crudele, immediato e diretto ....insomma la realtà.....
Magnifico racconto.