domenica 29 luglio 2012

E finire per sbaglio in un racconto di Stephen King...

Canarie. Lanzarote. Teguise. Il cortile di una casa. Una scritta sul cancello: EL PARAISO DE LOS RECUERDOS.
Le foto si commentano da sole. Brr.













giovedì 19 luglio 2012

Omobeige

Così, a caldo. Non so cosa ne uscirà. Ma sento che devo.
Pochi minuti fa, immersa nel controllo dei rilievi del progetto di quell'autostrada maledetta,  il cellulare suona. È l'Omonero: "Scendi un attimo. E fatti prestare un accendino."
Uh?
Rubo l'accendino arancione a Pepè: "Oh, se ti ha portato una canna chiamami!"
Scendo le scale di corsa, un punto interrogativo sulla testa.
Lui ha la faccia da Gatto Mammone. Mi porge un foglio. Lo leggo. O meglio: comincio a leggerlo, ma arrivata alla parola GIURAMENTO mi si annebbia la vista. Alzo la testa, incontro i suoi occhi, cinesi più che mai. 
Senza dire una parola, apre lo sportellino dello scooter, mi toglie l'accendino dalle mani e, mostrando un sacco di denti, tira fuori due bottigliette di Campari Soda: "Ti piacciono le cose rosse, no?"
Anche a te, penso. 
Non riesco a parlare. Prima di ogni sorso, brindo. Tre sorsi, tre CINCIN.


 

L'incubo è finito.
"Ora non posso più chiamarti Omonero."
"D'ora in poi, chiamami Fritz."

sabato 14 luglio 2012

No Expectations


Schizzechea. Cioè piove piccolo piccolo. In napoletano. 
È il quattordici di luglio, è sabato e dovrei esserne infastidita. Dovrei avere voglia di andare al mare, a leggere su uno scoglio, a stanare nudibranchi, a sperare di incontrare un Mola Mola.



Invece sono contenta, seduta sul divano, gobba sul tavolino dell’Ikea col mio netbook puzzolente di nuovo, sintonizzata su RadioTito, e con quel santo dell’Omonero in cucina che mi prepara il caffè. Lascerò il mio autismo per pochissimo, giusto il tempo di ringraziare. Permetterò alla tazzina di entrare nella mia bolla per poi richiuderla subito dopo. 

Sono felice, qui dentro. 

Durante la settimana mi sveglio eccitata, impaziente che la giornata a Nuovo Recinto finisca per tornare qui.  

(Digressione. Ieri Attilio, caro amico che non vedevo da mesi, mi ha chiesto: "Come va a Nuovo Recinto?” Il mio Superpotere di ribattezzare persone e cose è sempre forte. Ne sono molto felice. La mia amica Puddu lo è meno: sono dieci anni che si ritrova costretta a spiegare che si chiama Mara, che non è sarda e che Puddu non è il suo cognome, ma un soprannome affibbiatole senza nessun motivo da quella cogliona della Vale.) 

La prima parte dell’Esperimento è conclusa. La prima stesura, almeno. Ora è qualche giorno che cincischio: rileggo, correggo, cerco musica nuova, scelgo qualche brano, cambio idea. E la seconda parte non nasce. 

Mi dico: ovvio, iniziare è difficile sempre, la pagina bianca è aggressiva, spaventosa. 

Ma non è vero. Il fatto è che ho paura. Paura che tutto questo finisca. Paura di tornare in letargo. 

In genere, l’Esperimento mi sembra banale, puerile, mi vergogno tanto che resistere alla tentazione di buttare via tutto mi costa uno sforzo niente male. Ci riesco solo ripetendomi che mi sto divertendo da morire e vale la pena andare avanti, fosse anche solo per come mi fa sentire. Anche tenere diverse copie dei file nel computer di casa, nel computer in ufficio, nel netbook, nella chiavetta, mi salva dal raptus distruttivo.  

Le rare volte in cui invece mi capita di pensare che non fa poi così schifo, che, una volta arrivata in fondo, potrei anche decidere di farne qualcosa di più che carta da culo, mi prende una gioia tale che dimentico di mangiare, sigillo la bolla, indago musica ed inanello parole, piano, una dopo l’altra.

Succede di scrivere senza rendermi conto, in una specie di trance da cui mi sveglio solo alla fine. Tanto che rileggere è in realtà leggere. 

Ma è quando sconfiggo la pagina bianca che godo di più. La fatica di trovare come dire, come raccontare il delirio che ho in testa, quando dopo un’ora non ho ottenuto che una frase triste e allora tolgo tutto, avverbi, aggettivi, lasciando solo soggetto-verbo-complemento così, nudi. È in quel momento che la storia si risveglia. E la pagina bianca perde.
Ecco. Ho paura che, quando l’Esperimento sarà concluso, perderò questo piacere. Che non mi verrà nessuna idea, buona o brutta che sia, a tenermi sveglia la notte, a farmi controllare di avere sempre un quaderno in borsa, a chiedermi di esplorare terre nuove, ad obbligarmi a fotografare in giro storie che poi vorrò raccontare.


A dare un perché a questa cazzo di vita triste.


venerdì 13 luglio 2012

50 sfumature di grigio




E va bene, l'ho letto. Metà, a dire il vero. Anzi: il 68%, dice il mio kindle.
Ho voluto provare. 
Perché quando i numeri sono così elevati (diecimilionidicopieinseisettimane) mi incuriosisco.
Perché quando dico "è una cagata" di un libro che non conosco e qualcuno mi chiede "vabbé, ma l'hai letto?" io sento di perdere il diritto alla mia opinione.
Perché il sentirne parlare così male mi aveva fatto sospettare che le critiche potessero nascondere snobismo. O bigottismo. O entrambe le cose.
Perché, anche, l'idea di uno che mi ordina di aprire le cosce mi piace parecchio. 
Ognuno ha le sue.
Ma.
È scritto male. 
Puntini di sospensione spruzzati ovunque. 
Ana inciampa, si morde le labbra e arrossisce in ogni pagina. 
Grigio si passa le mani tra i capelli ogni tre. 
Vini, cibi e dita in culo sono tutti deliziosi.
I protagonisti, la ventenne vergine imbranata e il giovane miliardario bellissimo, sono imbarazzanti per evanescenza. Il punto non è lo stereotipo in sé (certo, io avrei preferito un uomo con vent'anni di più, magari con la pancia, alcolizzato e in disgrazia, ma son problemi miei); il punto è che i due tizi non sono.
Non hanno faccia.
Non hanno odore.
Non hanno niente da dire.
Vado avanti, sperando nella storia, in un guizzo nelle descrizioni delle scene di sesso. Ci sarà un motivo, mi dicevo, se milioni di donne sono impazzite. Macché: dopo due ore di noia, mi sono arresa ed ho abbandonato il mommy porn, felice solo di aver acquisito il diritto di dire CHE CAGATA e di porre un paio di domande.
La prima: cosa ha mandato in visibilio così tante femmine? Qualcuno lo capisce? Perché io no.
La seconda: ma una bella storia scritta bene, dove si scopa e basta, senza moine, qualcuno sa consigliarmela? 


domenica 8 luglio 2012

Back to the 80s


Evito sempre l’estate a Milano: il caldo che fa è quello dei gironi infernali, brucia l’ossigeno e ti schianta faccia a terra. Ma per i Cure tutto si può fare.
La logistica dell’Heineken è volta alla punizione di noi peccatori che, lasciata la macchina nel parcheggio, ci ritroviamo a scarpinare sotto il sole per oltre mezz’ora, circumnavigando tutta la maledetta fiera. Bisogna espiare.
Passiamo uno, due, tre controlli. Al terzo, dimentico di mostrare il contenuto dello zainetto (anelavo all’ombra, giuro, per una volta NON ero provocatoria), faccio due passi e rischio di stramazzare al suolo: un carabiniere ha agguantato il mio zaino (ha anche detto UGH!, l’ho sentito) bloccandomi il passo a mezz’aria. Per fortuna, non ho abbastanza fiato per protestare e mi limito ad aprire la zip.
“Vai.”
Vado. 
L’Omonero commenta gelido: “Cosa ti aspetti da un carabiniere?”
Già.
Attraversiamo il prato di plastica, ci lasciamo rinfrescare dall’acqua nebulizzata, ci dirigiamo sotto il palco. Stavolta abbiamo fatto i signori. Ci sono così poco abituata che, quando mi volto a guardare la gente dietro la transenna PIT, un po’ mi vergogno. E un po’ godo, lo ammetto.

L’attesa è breve e le note distorte dei Crystal Castles fanno tremare la terra. Alice ha i capelli LILLA (?) ed è più demonietto che mai: sorride svitata come il cappellaio matto, lancia sguardi truci e gira gli occhi, si lancia sul pubblico, si arrampica sulla cassa della batteria, si scola (credo) del whisky


Il duo esplode con Black Panther e un imbecille con in bocca più denti di quanti ne possa sopportare se ne esce con “ma questa è roba da discoteca!”

Diocristo.
Verrà il giorno. Verrà il giorno, dico, in cui governerò il mondo. E, ai concerti, potete giurarci, ci saranno dei test d’ingresso con botola. 
Intanto, io ballo e salto, nel modo tribale dei raver, perché il tempo è ancora il presente.
Arrivati a Not in Love tutti speriamo di veder spuntare Robert Smith. Vanamente. Ma una lacrima (la prima) mi punge lo stesso.
Alice ed Ethan escono di scena senza salutare, in scazzo cosmico. Quanto mi piacciono.

Mi siedo un po’ nel bosco di gambe e scarpe e dettagli dei tempi andati, in attesa dell’onda successiva. Che arriva: i New Order aprono con Elegia, e il tempo comincia a scivolare indietro, mentre i miei movimenti iniziano a cambiare. 

Su Isolation il cuore si scioglie, mi giro verso l’Omonero: ha la pelle d’oca anche in faccia. 
È la volta di Blue Monday, ed io e l’Omonero danziamo insieme carini, guardandoci da sottoinsù.
Love will tear us apart è la botta definitiva, lacrime (e due!) brividi ginocchia molli. Mariannaucrìa.

Altra tregua, benedetta, per raccogliere i pezzi di cuore, e siamo pronti per l’ultimo viaggio a ritroso.
Il palco si riempie di fumo. Robert Smith arriva, infila la chitarra. La camicia tira sulla pancia, la chioma cotonata non è che il ricordo di quella che era, ma…
L’imbecille con la bocca affollata, dietro di me, grida: “che vecchio!” La mia mano destra scatta a recuperare il gomito che era già partito per un colpo secco sul naso. Vedo la botola aprirsi sotto i suoi piedi e le punte d’acciaio pronte a trafiggerlo. Verrà il giorno.

Robert Smith indietreggia e sparisce nel fumo, poi avanza e Plainsong inizia.
La sua voce è sempre la stessa. E, ora come allora, mi rivolta e mi fruga dentro.
Lullaby mi immalinconisce.
Su Push e Play for today il mio corpo ricorda antiche movenze e ondeggia come un salice triste, i capelli davanti agli occhi.


Inizia Forest. Il vinile scricchiola, io sono in camera mia inginocchiata sul parquet, le calze a rete bucate, gli adorati Dr Martens ai piedi, e con un pennarello indelebile d’argento sto disegnando la faccia di Robert Smith su un ombrello da uomo. Un sospiro mi fa alzare lo sguardo e attraverso le ciocche nere vedo mia madre che mi osserva rassegnata, appoggiata allo stipite della porta: “Ed io che volevo una figlia femmina per vestirla di fiori.”
Friday I’m in love mi riporta al presente e mi toglie uno strato di malinconia; ricomincio a saltellare. Ma con Trust la faccia si inonda di lacrime (e tre!) e l’Omonero mi piglia per il culo. Gli spiego che ha a che fare con l’Esperimento e allora smette e, anzi, mi abbraccia.
I bis: Shake Dog Shake, Bananafishbones, The Top, Dressing Up, The Lovecats, The Caterpillar, Close to Me, Just One Kiss, Let's Go to Bed, Why Can't I Be You?, Boys Don't Cry.
Quasi tre ore, tre ore in cui il livello non è sceso mai.
Concerto perfetto. Impeccabile. Glorioso.
Mi inginocchio, Mr Smith. 




domenica 1 luglio 2012

Cesare e l'Eremita


Nessuna levataccia. E già cominciamo bene.
Unica nota negativa: la Mirabolante Miripont, promotrice e madrina del tuffo, se ne torna a casa con le pinne nel sacco causa soppressione treno. 
“Ma Miri! Dovevamo fare PATATA POWER!”
“Non dirmi niente: sono allibita. E incazzata nera.”
Come darle torto?
Al Q18, a far gli onori di casa c’è Leda: “Mancavate solo voi.”
Mi piace. Mi piacciono i suoi modi sbrigativi; mi piace come porta il mare negli occhi.
E poi Cesare, con Dolcissima Badante e Pargolo, e Micio. Con me, ovviamente, c'è l’Omonero. Che combriccola.
Sul gommone:“Isuela?”
Io, che so, già rido. Cesare, Badante e Micio gridano E BASTA! in coro. Sono convincenti: si va all’Eremita.
Briefing: “ Il sito si chiama “Grotta dell’Eremita” perché, secondo la leggenda, un Eremita stabilì nella grotta laggiù a sinistra la sua dimora. Alla prima mareggiata cambiò idea.” 
Gluglù. Giù. E restiamo per un po’ sospesi a fluttuare sulla posidonia, in attesa. Scoprirò poi che Dolcissima Badante non riusciva a compensare, ma quei minuti così, a guardarci negli occhi, placidi come mucche al pascolo, hanno il potere magico di sciogliere in me ogni tensione.
L’Omonero mi svolazza vicino e, d’un tratto, non siamo più bestie che brucano, ma temerari paracadutisti appesi al cielo. Tanto che, quando Cesare fa segno di muoversi, quasi mi spiace.


Io e l’Omonero lo seguiamo docili come sappiamo essere solo in acqua.
Cesare conduce, disegna il percorso tra i massi, guida tra i passaggi più belli, tra le rocce ricoperte di parazoanthus e coralli e stelle e ricci e spugne; e ora ci indica una grossa cernia, ora una flabellina infinitesima. E mentre lo fa, che altro fa? CANTA! per un attimo, l’Omonero pensa…




Un’ora laggiù, sessanta minuti tondi, senza fretta, senza pressione.
Risaliamo tra castagnole e salpe e saraghi; in sosta notiamo, proprio sotto il gommone, un bel gruppo di cernie, mentre in superficie galleggia un polmone di mare.
E poi il pranzo, gnocchetti alla ricotta e acciughe fritte tra le risate e i racconti di tuffi e di viaggi.
Ero così appagata, così felice che i sei piani a piedi con l’attrezzatura sulla schiena non li ho quasi sentiti.