Le due e quarantuno.
A letto da mezzanotte, mi sono
arresa ed ho acceso la luce.
Eccomi qui.
Macaia che intossica.
Il ventilatore muove l'aria
senza regalare refrigerio; in compenso, mentre mi rosolo nel letto pregando il
cervello di darmi tregua, il rumore che fa è passato da leggero fruscio a fastidiosa
bufera.
Ora è pale di elicottero e lo lancerei falla finestra. Che è chiusa, perché mi difenda dal frastuono di via Fillak, dalle sue ambulanze a sirene
spiegate anche di notte, dal cicalino del passaggio pedonale ogni cinque
minuti.
Non respiro.
Se almeno quest'affare che mi
vive in testa producesse qualche spunto per l'Esperimento. Invece cosa fa?
CANTA.
Da quasi tre ore, canta. Tutta
la mia scaletta di Blip. In religioso,
perfetto, maniacale ordine. Da manicomio.
Ho provato a contare le pecore. Ho
cominciato subito a chiedermi perché fossero tutte nere e ho perso il conto.
Ho riprovato coi colleghi. Ma sono bolsi,
pesanti, affannati, ansanti, inciampano goffi sulla staccionata, la scavalcano
senza grazia.
Fulmineo mi è passato tra le orecchie un
bisogno: acqua fresca. Così l'inquilino ha smesso di cantare. Per iniziare a
urlare: ACQUACQUACQUACQUA.
SENZA. SCAMPO.
Rassegnata, mi alzo, attraverso il soggiorno,
raggiungo la cucina, il frigo, l'acqua.
Calda.
Bisognerà abbassare la temperatura del
frigo, dico.
Tornando verso la camera, quel babbeo di
gatto piccolo si accorge di me, si allunga sul divano, apre mezzo occhio e mi
fa un "Meh" adorante.
Penso a ieri mattina, quando ha vomitato a
spruzzo sull'oblò della lavatrice APERTA e al desiderio violento di prenderlo e
caricarlo sul primo treno per Vicenza.
Ma mi guarda,
lui. E fa "Meh". Maledetto.
E intanto, sono le tre e
trentatré.